Egea Haffner è ricordata da tutti come la bambina con la valigia. Aveva cinque anni quando fu costretta a lasciare, con altre migliaia di esuli, la città di Pola: “Finalmente oggi si parla di questa vicenda”
Il 10 febbraio si celebra il Giorno del ricordo. Una giornata nata per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. La bambina con la valigia è uno dei simboli di questa giornata. “Non pensavo di rivedere quella foto così tante volte”, ci confida Egea Haffner, la bambina che il 6 luglio del 1946, venne immortalata con una valigia in mano prima di lasciare (come migliaia di esuli) la sua terra.
Dopo anni di silenzio, di porte chiuse alle spalle e di censure, la sua storia è finalmente diventata di dominio pubblico. La bambina con la valigia è diventata una vicenda conosciuta a tutti. Il simbolo dell’esodo giuliano-dalmata, ha potuto raccontare lo strazio passato nel lasciare la propria terra d’origine. La sua vicenda è diventata un libro ed ha trovato spazio in giornali e in alcuni speciali televisivi.
Egea Haffner è la bimba fotografata a Pola nell’immagine che ha fatto il giro del mondo: aveva il volto triste, imbronciato e davanti a se teneva con forza una valigia con scritto: “Esule Giuliana” ed il numero 30.001. “Fu un’idea di mio zio – dichiara in esclusiva ai nostri microfoni – il merito di tanta attenzione è tutto suo. Quel numero ha una spiegazione precisa: Pola contava 30.000 abitanti e in questo modo facemmo una piccola messa in scena per poter spiegare cosa stava accadendo. Sapevamo perfettamente che ci avrebbero mandato tutti via”.
La foto è diventata un simbolo molti anni dopo. Alla fine degli anni novanta nella città di Rovereto venne realizzata una mostra, dedicata agli esuli di Pola e Trieste. Gli organizzatori si recarono nelle case degli esuli e dei parenti più stretti alla ricerca di materiale da trasformare nella mostra: documenti, foto, reperti di quei drammatici giorni. “Io aprii un baule e dentro ci trovai tante cose: quaderni di scuola, diari, ricordi di quei giorni terribili. C’erano tanti documenti di mio padre, che vennero presi e mostrati. Ad un certo punto spuntò fuori questa mia immagine. Piacque tantissimo agli organizzatori, che la trasformarono nella copertina della mostra. Diventò un vero e proprio simbolo”.
Una foto che nacque quasi per caso. “Stavamo lasciano Pola per andare da mia zia in Sardegna. Ero con mia madre e mia zia. Mio padre non c’era già più: qualche giorno prima vennero dei soldati di Tito bussare alla nostra porta. Gli dissero che doveva seguirli per un controllo, ma da quel momento non tornò più a casa. Ancora oggi quando sento una sirena penso sempre ai bombardamenti, alle sirene che ci avvisavano che da lì a poco sarebbero arrivate le bombe. Sotto una di quelle cadde un mio zio. Pochi minuti prima era in strada con me”. La sorte del padre è rimasta avvolta nel mistero. Si pensa che possa essere stato ucciso e infoibato a Pisino. “Per i militari di Tito tutti gli italiani erano fascisti, anche se spesso ad essere infoibati erano semplici cittadini o partigiani antifascisti che avevano combattuto contro i tedeschi. L’unica loro colpa era di essere italiani. Come mio padre”. La piccola Egea si mise in posa davanti casa. “Volevamo lasciare un ricordo a nostra nonna, che voleva rimanere a Pola. Io avevo la faccia imbronciata per tanti motivi: ero scocciata, sapevo che stavo per lasciare casa mia, la mia vita, il luogo dove ero cresciuta con mio padre. E poi avevo fatto già tante foto e non vedevo l’ora di fermarmi (ride ndr.)”.
Egea lascia Pola, va in Sardegna, poi a distanza di qualche mese torna a Bolzano per restare con la nonna, che nel frattempo era stata obbligata anche lei a lasciare la sua terra di origine. “Pensate cosa vuol dire lasciare tutto e ricominciare. Mia nonna lo fece: aprì un negozio e io le diedi una mano. Ma i soldi non c’erano, fu tutto molto complicato. Dormivamo su due materassi stesi a terra nella stanza del negozio. Ci siamo date da fare e abbiamo iniziato da zero”. La sua vicenda, quella degli esuli e chi fu ucciso nelle Foibe, è stata spesso dimenticata o volutamente accantonata per anni: “Mi sono sempre chiesta il motivo di questo silenzio. Credo che sia molto importante anche il lavoro delle insegnanti nelle scuole. Spero che il mio libro possa essere servito a qualcuno per capire cosa abbiamo vissuto in quegli anni. Le difficoltà che abbiamo dovuto superare. Io nell’ultimo periodo ho girato tanto per le scuole: ho parlato con i ragazzi che mi chiedevano di raccontare quello che è successo. Finalmente siamo riusciti a fare in modo che di questa vicenda se ne parli. Senza mettere in mezzo la politica. E vedo che i ragazzi capiscono e apprezzano”.
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