Un medico nel mezzo di un processo della ‘Ndragheta: tutti i dettagli sulla vicenda che ha riguardato la città di Anzio
Fernando Giuseppe Costanzo è un medico del pronto soccorso di Anzio, che nel suo seminterrato, però, nascondeva armi e proiettili, insieme a dell’hashish, a un bilancino e a un macchinario per il sottovuoto. Le chiavi dello stesso locale le aveva date via al suo amico Vincenzo, detto “Enzo”, Italiano, un uomo calabrese di fiducia del boss Bruno Gallace. Secondo quanto riportato dalle indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma, aveva costituito una nuova ‘ndrina’ autonoma dalla ‘madre patria’ di Santa Cristina d’Aspromonte, proprio sul litorale a Sud della Capitale. Si tratta di un sodalizio leader all’interno della gestione del narcotraffico, con diversi collegamenti che avevano preso totalmente la vita politica e sociale di Anzio e di Nettuno.
Questa situazione in particolare è spuntata fuori proprio durante l’ultima udienza del processo al clan Gallace-Madaffari, in cui Costanzo è stato chiamato in aula come persona informata sui fatti. Delle domande se ne è occupato Giovanni Musarò: “Che attività svolge?”. “Medico al pronto soccorso di Anzio dal 2002”. Da qui inizia il racconto dell’appartamento preso in affitto nella primavera del 2018. Riguardo però alla chiave in mano a Italiano, poi arrestato nell’operazione “Tritone” condotta a febbraio 2022, Costanzo ha dato in aula la sua versione: “Un giorno uscendo l’ho incontrato davanti all’appartamento diviso in due, ho visto un’ombra che mi sembrava una donna. Mi disse che un ragazzo gli prestava la casa per una relazione extraconiugale. Allora io gli dissi: io non ci sono quasi mai a casa, se ti serve me la guardi pure visto che qui ci sono brutti ceffi, basta che cambi le lenzuola. Gli ho imprestato un mazzo di chiavi, e la chiave della cantina era nel mazzo, non ci feci caso”.
Cosa è successo
Da qui il medico rivela che con Italiano aveva “rapporti saltuari”, e successivamente viene incalzato da una serie di domande: “Prima di Anzio dov’era?”. “A Roma”. “Lei è calabrese, non sapeva da quale famiglia veniva Italiano?”. “Sapevo che aveva problemi”. “Che problemi?”. “A Rosarno, problemi per motivi vari”. “Ma li immagina questi problemi?”, insiste il pm. “Sì non sono scemo… sono legati alla ndrangheta. Pure la madre è andata via da Rosarno, hanno ucciso suo padre”. “E da chi lo ha saputo?”. “Dall’infermiera che me lo presentò ma lei ora è morta”, risponde a tono Costanzo.
La polizia ha fatto un blitz all’interno della cantina alla fine di novembre 2019: una perquisizione per le indagini propedeutiche all’operazione Tritone, che ha portato all’arresto di 65 persone e al commissariamento dei Comuni di Anzio e Nettuno. Per quell’episodio Costanzo è stato indagato e condannato per la detenzione dei proiettili. Ma in aula l’altro giorno ha anche parlato, sempre in risposta agli inquirenti, di alcune visite che ha ricevuto nel corso del 2020 da parte del clan che rivendicava una presunta sparizione di droga dal seminterrato. C’era, in particolare, un «albanese grosso grosso» che lo terrorizzava e che pretendeva mezzo chilo di coca o ventimila euro. Costanzo ha spiegato: “Mi chiedeva, come hai comprato casa? Coi proventi della droga? Ma io la casa me la sono sudata lavorando, la droga non la tocco: sono andato dai carabinieri a denunciare tutto”.