Può capitare che l’azienda decida di mettere il proprio dipendente in Cassa Integrazione ingiustamente: cosa dice la legge al riguardo.
Il mondo del lavoro è da sempre un sistema complesso, ricco di leggi, ma anche sfaccettature. Se da una parte il dipendente ha diverse tutele, il datore di lavoro può attuare strategie – morali o meno che siano – per giocare le carte a suo favore.
Uno dei casi più comuni è quando il datore di lavoro vuole licenziare il dipendente per cause non imputabili. Che si tratti di un’antipatia o un semplice rifiuto di fare straordinari, possono essere molteplici i stratagemmi per ‘punire’ il dipendente o addirittura portarlo al licenziamento spontaneo. Uno dei casi più comuni è la Cassa Integrazione, ossia una pausa di diverso tempo decisa dal datore di lavoro che, tuttavia, non è retribuita.
A seguito di una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha stabilito che se un lavoratore viene messo in cassa integrazione senza motivo, ha diritto a essere risarcito. Questo non solo per i soldi persi, ma anche per il danno alla sua professionalità. Il pronunciamento ha dunque chiarito quali siano i diritti di coloro che si trovano in questa situazione.
Immaginiamo per un attimo di essere quel dipendente che, senza aver commesso alcuna colpa, si vede improvvisamente sospeso dal proprio lavoro a causa di criteri discutibili. Una situazione frustrante, penseremo, ma anche devastante per la vita economica e professionale di chi ne è coinvolto.
Il verdetto della Cassazione ribadisce il concetto che il lavoro non è solo una fonte di sostentamento, ma una parte dell’identità e della dignità di una persona. Quando un datore di lavoro mette un dipendente in Cassa Integrazione senza valide ragioni, dunque, non solo infrange le leggi sul lavoro, ma viola anche il diritto fondamentale di quel lavoratore a svolgere la propria attività in modo dignitoso e rispettato.
Non si tratta solo della perdita economica dovuta alla mancata retribuzione durante il periodo di sospensione, ma anche della compromissione della professionalità, dell’immagine professionale e della dignità lavorativa del dipendente. Come sottolinea la Corte di Cassazione, questo danno va oltre i numeri sui conti bancari; danneggia profondamente la fiducia e l’autostima del lavoratore.
Per dimostrare il danno, la Cassazione suggerisce di guardare diversi elementi. Questi comprendono la quantità e la qualità del lavoro svolto prima e dopo la sospensione e l’importanza del ruolo professionale del dipendente. Questo, senza dimenticare la durata della situazione di demansionamento ed eventuali cambiamenti nella posizione lavorativa dopo la dequalificazione.
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