Qualcosa sta cambiando nelle politiche di acquisti online a cui siamo abituati, sono sempre più le piattaforme che addebitano costi per un eventuale reso
Come sempre, non è facile decidere se per fortuna o per disdetta, “tutti i nodi vengono al pettine”, e ora la pacchia sta finendo. Negli ultimi anni la possibilità di effettuare acquisti online ha aperto nuovi orizzonti a tutti noi e per qualche verso ne ha chiusi altri, passando per comportamenti esagerati e arrivando anche a registrarne molti a dir poco scorretti.
Questo è ciò di cui si sono rese conto molte aziende e adesso stanno correndo ai ripari facendo addirittura pensare che l’era degli acquisti compulsivi online subirà un prossimo declino. Parliamo comunque di un volume di affari che nel 2023 ha superato i 54,2 miliardi di euro (con un aumento del 13% rispetto a un anno fa)
Il problema che molte aziende non riescono più a gestire riguarda i resi della merce acquistata e non più desiderata. Nato come imprescindibile servizio per invogliare all’acquisto online, che chiaramente è soggetto al fattore sorpresa al contrario di un acquisto effettuato in negozio, guardato, misurato e analizzato “fisicamente” attraverso i sensi di cui siamo dotati, e per fidelizzare il cliente, oggi questa voce rappresenta un costo troppo alto per i bilanci delle aziende oltre che un problema per il sistema logistico. E’ già da tempo infatti che alcuni brand hanno scelto di applicare un piccolo costo aggiuntivo a carico dei clienti per disincentivare l’acquisto compulsivo e sentirsi un po’ più green. In questo modo le aziende tutelano i propri profitti cercando di abbassare i costi sostenuti per le numerose spedizioni e per l’eventuale distruzione dei prodotti che i clienti hanno usato o rovinato prima di restituire.
Infatti molti brand hanno verificato che diverse persone, incoraggiate dalla possibilità di restituire gratuitamente la merce, quindi abiti, borse, scarpe o qualsiasi altro articolo, la utilizzano per un tempo limitato e poi la restituiscono. Ma anche semplicemente perché si è diffusa la pratica di acquistare lo stesso capo in taglie e/o colori diversi per poi provarli e decidere con calma quello che si vuole acquistare davvero. Tutto ciò provoca anche un elevato impatto ambientale, causato appunto dallo spreco della merce, a volte usata e non più vendibile, dal largo uso degli imballaggi, con l’enorme quantità di scatole di cartone e involucri di plastica impiegati, e dall’ingente traffico necessario per “la circolazione“ della merce stessa.
La rivoluzione è partita dal Regno Unito, dove le aziende hanno iniziato ad addebitare i costi di restituzione, con una politica che si è presto diffusa in America. Così Zara e Asos, ma anche Uniqlo, Dillard’s, H&M, Jc Penney, J. Crew, Macy’S e Abercrombie & Fitch hanno stabilito dei prezzi per i resi. Per esempio, Zara ha iniziato ad addebitare 1,95 sterline per la restituzione di articoli acquistati online attraverso punti di ritiro gestiti da terze parti, come gli uffici postali. Ma è ancora possibile restituire gratuitamente gli acquisti direttamente nei negozi fisici della catena spagnola. La tendenza sta raggiungendo anche l’Italia e si prevede che presto anche le aziende italiane si muoveranno nella stessa direzione.
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