L’attentato all’ex presidente statunitense può risultare decisivo nella corsa alla Casa Bianca. Ecco i possibili scenari
Donald Trump è il 47° presidente degli Stati Uniti. Il verdetto è stato affidato ad un proiettile che ha toccato l’orecchio del tycoon quanto basta per farlo sanguinare, come un colpo male assestato di un pugile che sfiora il volto dell’avversario senza metterlo ko. Se si vuole prendere in prestito il linguaggio della sua amata boxe, Trump ha accusato il fendente ed è andato al tappeto, di proposito, per evitare il peggio.
Pochi istanti dopo sollevava il pungo destro verso il cielo, sotto una bandiera a stelle e strisce, con due rivoli di sangue che ne segnavano il volto. L’avversario – un Lee Harvey Oswald, più giovane e con una biografia meno complicata alle spalle – che dall’alto di un edificio, ha atteso pazientemente e tentato di cambiare la Storia era già morto, a 150 metri di distanza, freddato da un cecchino della sicurezza. Se le cose fossero andate diversamente – si parla di un centimetro, un solo centimetro in grado di cambiare il destino del Mondo e di noi tutti, nel bene e nel male – se quel proiettile avesse centrato Trump, cambiando l’indefinibile colore dei suoi capelli in un vivido rosso sangue questo giorno sarebbe stato uno spartiacque tra il prima ed il dopo.
Un 14 luglio mancato
Trump poteva sopravvivere qualche ora e morire il 14 luglio, giorno in cui si celebra la presa della Bastiglia, in Francia. Ecco, la follia avrebbe conquistato la sua fortezza, negli Stati Uniti, colpendo a morte quello che viene indicato, da molti, come un futuro despota, colui che porrà fine al sogno americano, quello che è o ci è stato fatto credere. A quel proiettile era affidata una missione: compiere un regicidio preventivo, per salvare gli Stati Uniti. L’attentatore, Matthew Crooks – 20 anni, una vita finita follemente sul tetto di un edificio, in Pennsylvania – non potrà confermare né smentire, ma il movente, sebbene solo immaginato, è verosimile. Un crocevia importante della Storia rimane racchiuso in pochi secondi, sotto gli occhi di tutti. Quello che ora sappiamo è che Trump ha già vinto la sfida per tornare alla Casa Bianca. Non perché è rimasto illeso, non solo per questo, ma per il modo in cui ha vissuto e perfino interpretato gli istanti più importanti di un’esistenza – la sua , che di attimi importanti ne raccoglie copiosamente, quasi da stipare l’immenso deposito di un narcisismo tagliente e ostinato. Per quanto detestabile e detestato quest’uomo ha mostrato per l’ennesima volta di non essere privo di talento, di non essere lì per caso.
Capire tutto, in un attimo
C’è l’impressionante la lucidità con cui il tycoon ha intuito il pericolo. Ha sentito qualcosa toccarlo, come un insegnante avverte il dispetto di un’aula con studenti indisciplinati e privi di ritegno. Ma quello che altrove poteva essere un grumo di carta soffiato per noia lì, su quel palco, tra migliaia di persone, era il segno di una morte possibile, perfino prossima. E il tycoon lo ha compreso all’istante. E’ scomparso alla vista, immediatamente. E, prima ancora degli uomini e delle donne accorsi a proteggerlo, sapeva cosa fare e come. Trump ha compreso la cruciale importanze del momento per segnarlo con la propria indole, e per sempre. Sovrastato dai suoi come in una mischia durante una partita di rugby ha insistito, in cerca delle scarpe, di cui era rimasto privo dopo essere stato amorevolmente placcato da chi tentava di proteggerlo. Trump non ha voluto lasciare il palco scalzo, claudicante. “Let me get my shoes on, let me get my shoes on” ha detto, con insistenza. Non voleva concedere un segno di vulnerabilità, il tycoon, simboleggiato dalle scarpe dimenticate sul punto in cui il suo orecchio ha iniziato a sanguinare. I suoi uomini lo hanno ascoltato, a fatica, e solo allora il tycoon si è deciso, a modo suo: in piedi, orgogliosamente, il viso segnato da due sottili linee rosse, il pugno alzato mentre gridava “fight, Usa” – America, combatti. Uno slogan improvvisato, maledettamente efficace e paradossale, se si pensa che il trust di Trump è quello di lottare il meno possibile, nel mondo. Il che significa, prosaicamente, creare meno guai e cercarne ancora meno, costruire muri e leccarsi le ferite. Ma nella vita vince il carattere e le parole per affermarlo, ci sembra dire Trump. Ed è difficile dargli torto, dopo quello che si è visto. E si è visto che anche il destino ci ha messo una mano.
Trump e gli altri
Se nel 1963 JFK usciva di scena piegato in avanti e subito dopo scaraventato indietro da un proiettile spietato, se nel 1981 Ronald Regan reagiva all’attentato con la smorfia dell’attore mediocre, Trump ha interpretato l’attimo con la grandezza di un protagonista shakespeariano sul palcoscenico del mondo. Trump ha rimarcato la distanza abissale, nel mood, con il presidente in carica Joe Biden che, qualche ora dopo, offriva la propria solidarietà con poche, sussurrate parole – poche parole per non inciampare rovinosamente nei nomi e nelle frasi, come sempre. Biden appariva fermo, impacciato, quasi prossimo al rigor mortis – in contrasto con lo scatto felino, il tempismo e la ferocia dell’uomo a cui cederà la scrivania, fra pochi mesi. Quasi un dialogo a distanza, fatto di gesti e cenni, con l’uomo sfiorato dalla morte che sfida il mondo, e l’altro, l’uomo colpito dal proiettile spietato della vecchiaia e della malattia che non riesce a sollevare il pugno al cielo e a gridare, non più. Ed è così che Trump, l’uomo con l’orecchio sanguinante, il 13 luglio nella piccola Pennsylvania ha vinto la corsa alla Casa Bianca, definitivamente. (A.D.)