Il sindaco di New York Eric Adams ha denunciato i cinque principali social network perché “promuovono dipendenza” nei minori.
I social contro cui la città si è scagliata sono TikTok, Snapchat, Instagram, YouTube e Facebook. La denuncia è stata depositata dal primo cittadino Adams presso la Corte Suprema della California, dove hanno sede la maggior parte delle aziende tecnologiche, congiuntamente con l’Ufficio del sindaco e i Dipartimenti dell’Istruzione e della Salute.
Eric Adams ha fatto sapere che la città di New York spende 100 milioni di dollari all’anno per il trattamento della salute mentale dei giovani. “Molti siti di social media finiscono per mettere in pericolo la salute mentale dei bambini, promuovono la dipendenza e incoraggiano comportamenti malsani”, ha dichiarato.
Abbiamo chiesto a Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario e presidente dell’associazione nazionale dipendenze tecnologiche e cyberbullismo (Di.Te).
Professor Lavenia, è d’accordo con la denuncia presentata dal sindaco di New York Eric Adams?
“Quando il sindaco di New York Eric Adams ha alzato la voce contro le mastodontiche piattaforme social, non ha fatto altro che mettere in luce una verità scomoda che troppo spesso preferiamo ignorare. La sua decisione di portare in Tribunale questi colossi digitali non è solo un gesto di coraggio, ma un segnale di allarme per tutti noi. Ciò che sta emergendo è il ritratto di una generazione intrappolata in una rete di connessioni virtuali, in cerca di quel senso di appartenenza e comprensione che la realtà fisica sembra non offrire più. La dipendenza dai social media, lungi dall’essere un semplice vezzo tecnologico, si rivela sintomo di un disagio profondo, di un vuoto emotivo che le nostre comunità stentano a colmare”.
Crede che una denuncia simile debba arrivare anche dall’Italia?
“La mossa del sindaco Adams troverebbe una risonanza immediata anche nel contesto italiano, dove le dinamiche sociali e familiari riflettono sfide simili. In un Paese rinomato per i suoi valori comunitari e familiari, l’erosione di questi pilastri fondamentali a favore di relazioni digitali effimere, solleva questioni preoccupanti. L’avanzata di una causa legale contro i giganti dei social potrebbe non solo accendere i riflettori su questa problematica, ma anche inaugurare un dialogo nazionale cruciale. È il momento di interrogarci sul ruolo che i social media giocano nella vita dei giovani italiani e sulle strategie per riscoprire e valorizzare il tessuto delle relazioni umane autentiche”.
Quanti sono gli adolescenti italiani che si rivolgono a lei tramite le loro famiglie, perché dipendenti dai social?
“Ogni anni, più di 2mila giovani e le loro famiglie bussano alla porta della nostra associazione, cercando un faro nel mare tempestoso della dipendenza dai social. Queste richieste di aiuto sono il sintomo di una crisi di assenza: mancanza di momenti condivisi in famiglia, supporto comunitario, di amicizie vere. Questi vuoti vengono erroneamente cercati di essere colmati attraverso i like e le condivisioni, innescando un ciclo vizioso di dipendenza. Spesso, le famiglie sottovalutano il potere trasformativo della loro presenza, un antidoto potente contro la solitudine digitale”.
Come si manifesta questo problema?
“La dipendenza dai social tra i giovani è il segnale di un malessere profondo, una ricerca disperata di compensare vuoti emotivi e social che la vita offline sembra non riuscire a soddisfare. La continua ricerca di approvazione e validazione online è un palliativo che, lungi dal sanare, aggrava il senso di isolamento e insoddisfazione. Questa dipendenza digitale diventa un circolo vizioso, dove la solitudine si nutre di like e condivisioni, allontanando sempre più i giovani dalla ricchezza delle interazioni umane, quelle vere, che hanno il potere di guarire e riempire di significato la nostra esistenza”.
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